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Il ladro della luna

Posted in Storie e poesie on 21 giugno 2011 by campa100anni

Tanto tempo fa esisteva solo la notte. Non c’era il giorno, non c’era il sole, il cielo non era azzurro e non c’era mai luce. C’era solo il buio, c’era solo la luna, c’erano solo le stelle e c’era solo il nero. Non pensate, però, ad un mondo triste,tenebroso, pauroso o malvagio. Non fate come tutt la gente. Non associate la notte al brutto, al male o al cattivo. Non immaginate streghe o maghi maligni, draghi o lupi notturni. Esisteva solo la notte, ma era un mondo bellissimo lo stesso. Tutti parlavano sottovoce. Sempre. Nessuno urlava mai e tutti erano calmi. Le stelle erano sempre alte in cielo e l’armonia regnava sulla terra. Tutti si volevano bene, la gente si amava, trovava ispirazione dalla luna, era un mondo pieno di poeti, di romantici, di amanti e pensatori. Ci si ritrovava tutti insieme a guardare il cielo, assopiti sui prati, sulle spiagge, per la strada, nei boschi. Tutto scorreva via tranquillo, lento e pacifico. Nessuno aveva mai da ridire, nessuno trovava mai una scusa per litigare, si andava tutti d’accordo sempre e da sempre. In questo mondo immerso del buio tutto andava a meraviglia, tutto era sempre andato a meraviglia e nessuno immaginava che un giorno sarebbe potuto mai accadere qualcosa di brutto o di cattivo. Se camminando qualcuno perdeva qualche moneta, subito qualcun altro la raccoglieva e gliela restituiva.Se per sbaglio qualcuno schizzava dell’acqua sulla giacca di qualcuno, subito gli offriva la sua asciutta ed immacolata. Insomma, era un mondo perfetto, regolato e controllato dai buoni sentimenti e dall’amore. Ma un brutto giorno, anzi una brutta notte, qualcuno si invaghì troppo della fonte di tutto quel bene, della luce che illuminava il cielo da sempre. Qualcuno si innamorò di tutta quell’armonia e di quella pace. Si innamorò della notte. Di più, si innamorò della luna. Ysahc la fissava ogni momento. Se ne stava da solo, in disparte, ad ammirarla, a sognarla, a decantarla. Per ore. Ed ore. Non parlava con nessuno, era sempre stato un tipo solitario e questo lo avvicinava sempre di più a lei, alla sola che si mostrava interessata al suo sguardo, alla sua attenzione ed al suo amore. Se la luna cambiava leggermente colore, allora lui pensava lo facesse per timidezza. Se si spostava leggermente era perchè una nuvola gli impediva di vederlo. Se diventava più grande, era perchè si avvicinava per guardarlo. Si convinse che anche lei lo amava. Si convinse che viveva lassù aspettando il momento in cui lui si fosse deciso di andarla a prendere e portarla con se. Ci pensò su un attimo, gli sembrò davvero un pensiero troppo insensato ma ogni attimo i suoi occhi volavano di nuovo in direzione del cielo e la sua mente trovava delle risposte a tutte le sue domande sulla effettiva possibilità che tutto ciò potesse essere reale. Ci pensò su delle ore. Tutta una notte. Ed alla fine si convinse. Lui amava la luna e la luna amava lui. Era finalmente il momento di andare lassù e dimostrarle tutto il suo amore. Era il momento di andare lassù a prenderla e portarla con sè. Aspettò che tutti si fossero addormentati e poi salì in cima alla montagna più alta del mondo, una montagna che non era mai stata scalata da nessuno. Troppo pericoloso era spingersi fino a lassù ma Ysahc, quella notte, era spinto da un desiderio troppo forte e riuscì agiungere sulla vetta prima che tutti si svegliassero. La luna, assopita anche lei, non si accorse nemmeno del suo arrivo ma lo sentì dietro di se quando lui era ormai in cima. Non fece in tempo a girarsi che Ysahc la prese al lazo come si fa con la testa di un mulo, la imbavagliò, la infilò in un sacco e se la portò dentro una grotta a pochi passi da lì. Dopo averla legata per bene tornò fuori, nel buio pesto di quel mondo orfano della sua luce ed al posto della luna ci mise il sole. Non appena lo sistemò lassù in cielo una luce potentissima squarciò il nero, le stelle scapparono via, il mare s’impallidì, il nero fu spazzato via e il cielo si tinse di azzurro. Tutto il mondo aprì gli occhi di scatto e subito balzò in piedi accecato
da quella nuova luna. Tutti sgranarono gli occhi alla vista di un mondo assolutamente sconosciuto, alla vista di colori assolutamente sconosciuti. La verde erba, l’azzurro mare o la grigia roccia erano del tutto nuovi ai loro sguardi e tutti gli abitanti del mondo fecero fatica a capire cosa stesse accadendo. In quel momento Ysahc tornò fuori. Guardò in giù con gli occhi luccicanti ed iniziò a gridare:
“sono io uomini! Io, Ysahc, vi ho preso la luna. L’ho portata con me, l’ho resa PER me, e l’ho portata via da voi. Da oggi questo è il vostro nuovo mondo. Dimenticate il buio, dimenticate la sua figura, dimenticate la sua bianca luce, da oggi la luna è svanita per sempre. Ricordate questo momento come il primo giorno e l’ultima notte” e così dicendo tornò dentro la roccia. Tutti si guardarono inorriditi cercando di richiamarlo fuori:
“Ysahc, furfante, ridacci la nostra luna, vieni fuori!”.
“Ridaccela, vigliacco!”.
Ma nessuno venne fuori da quel buco nella pietra.
Tutti si stupirono delle loro voci, che per la prima volta sentivano risuonare in tutta la loro potenza, senza bisbigli, senza sospiri, ma tutte d’un fiato. Subito si diedero colpe a vicenda, puntandosi a dito per non averlo fermato in tempo:
“Sarete contenti adesso! E’ tutta colpa vostra”.
“Come diavolo avete fatto a non svegliarvi in tempo? Maledetti dormiglioni! Dovevate fermarlo”.
Tutti si diedero la colpa, ma nessuno mosse un dito per cercare di salire in cima alla montagna a riprendersi quello che gli era stato tolto. Tutto il mondo protestò, tutto il mondo si infuriò, ma tutto il mondo accettò quello che gli era successo. Accettò di essere stato derubato e iniziò una nuova vita. Una vita dove c’era solo il giorno e la notte venne dimenticata. Un mondo diverso da quello che era sempre stato. Un mondo nuovo.
Questo nuovo mondo era diverso da quello vecchio. Tutti gli uomini erano cattivi, pieni di rabbia, scontrosi ed urlavano sempre. “Ehi, accidenti a te guarda dove metti i piedi”, “sbrigati con quella fontana, non possiamo mica star qui tutto il giorno”, “allora, ti decidi o no a salire?”. Non c’era più il silenzio, la pace o l’armonia, tutto andava di fretta, non c’era mai tempo per starsene un pò seduti, tutto era frenetico, veloce. Chi correva di qua, chi scappava di la, nessuno
sorrideva più e niente era più come prima. Nessuno dormiva mai, nessuno si riposava perchè la luce impediva di chiudere gli occhi e poi le cose da fare erano troppe. Gli innamorati iniziarono a litigare, iniziarono ad allontanarsi, i romantici diventarono cinici, i poeti diventarono taciturni, il bello diventò brutto. Il sole aveva cambiato tutto, aveva cambiato il mondo ed aveva fatto dimenticare la luna. Per molto, molto tempo la situazione continuò ad aggravarsi sempre di più, la gente era sempre più ostile, iniziarono le liti, le risse, gli amici erano diventati nemici e si facevano la guerra, gli innamorati erano ormai scomparsi totalmente e l’amore perse il suo significato. La gente aveva smesso di bisbigliare, aveva smesso di volersi bene ed aveva smesso di sognare. Tutto era precipitato e tutto sembrava destinato ad andare ancora più giù fino alla fine dei tempi. Fino a quando un bel giorno (cioè, non era stato bello per niente fino a quel momento) una ragazza che non aveva dimenticato, che non aveva cancellato, che ancora amava, che ancora sognava e che ancora sorrideva si stufò di come erano cambiate le cose, e decise di riprendersi quello che era (stato) suo. Mentre tutti si azzuffavano, urlavano e sbraitavano lei si recò ai piedi della montagna di Ysahc ed iniziò a scalare. Nessuno la notò, erano troppo impegnati a spintonarsi, urlarsi in faccia e odiarsi e la ragazza riuscì piano piano, a fatica a raggiungere la vetta. Appena arrivò in cima notò subito che la grotta di Ysahc era sbarrata da una grossa porta di legno, impossibile da aprire dall’esterno. Si avvicinò ed, allora, iniziò a chiamarlo fuori:
“Ysahc, Ysahc, vieni fuori!”.
La porta scivolò leggermente verso l’esterno e due occhi sorpresi sbirciarono fuori dall’incavo nella pietra. Scrutarono la ragazza, una, due volte e poi tornarono dentro richiudendola. Uno schiocco sordo accompagnò quel gesto e poi un rumore di qualcosa di grosso che veniva trascinato via. La porta iniziò a muoversi lentamente verso sinistra e via via che si apriva la ragazza vedeva trapelare una luce biancastra dal buio della grotta. La riconobbe subito. Era il chiaro di luna che illuminava il buio vuoto della roccia. Appena la porta fu del tutto aperta Ysahc venne fuori, sopreso di vedere qualcuno lassù, di
fronte la sua casa.
“Una ragazza? Accidenti, immaginavo che un giorno qualcuno si sarebbe deciso e sarebbe venuto fin quassù, ma una ragazza proprio non lo sospettavo”.
La ragazza si portò una mano sulla fronte, spostandosi una ciocca di capelli da davanti gli occhi. Poi si schiarì la voce,
come a voler darsi coraggio:
“Adesso basta Ysahc. Ridaccela”.
Ysahc la guardò impassibile:
“Per quale motivo dovrei ridarvela? Sta benissimo lì dov’è. Sta benissimo con me”.
“Forse lei sta benissimo” ribattè la ragazza, “ma guarda cosa hai combinato. Guarda come è cambiato il mondo da quando te la sei presa e ce l’hai portata via”..
La ragazza fece un passo in direzione del pendio e con la mano indicò sotto di lei la baraonda che si rincorreva, si malediceva e si urlava contro.
“Guarda cosa hai combinato, sciocco. Hai cambiato tutto. Non hai solo preso la luna. Hai preso la notte. Hai preso il silenzio. Hai preso la calma, la pace, la gioia. Hai preso l’amore. Ci hai rubato tutto”.
Ysahc guardò giù sorpreso da quella visione. Non era uscito di casa molto spesso da quell’ultima notte e non aveva idea di cosa stesse effettivamente succedendo nel mondo. Non pensava di aver tolto agli uomini la voglia di amare, di sorridere e di sognare. Non si era reso conto di quanto importante fosse la notte e di quanto importante fosse la luna. Pensava di aver sì tolto qualcosa agli uomini, ma in fondo qualcosa gliel’aveva anche data. Gli aveva dato il sole, gli aveva dato la luce, gli aveva dato il giorno. Gli aveva dato il calore, gli aveva dato i colori del mondo e di tutto il cielo, togliendogli il buio ed il nero. Insomma, se proprio qualcuno sarebbe mai venuto a bussare alla sua porta sulla cima di quella montagna, si sarebbe aspettato che fosse stato per ringraziarlo, non per rimproverarlo. Guardò la ragazza, quasi imbarazzato da quella sensazione di colpa e le chiese:
“Come è possibile una cosa così? Come può un uomo cambiare tanto senza la notte?”.
La ragazza voltò lo sguardo in direzione della grotta, in direzione della bianca luce che trapelava fuori, poi gli chiese:
“Perchè l’hai presa con te?”.
Ysahc sospirò ed iniziò a parlare senza fermarsi, tutto d’un fiato:
“Perchè la sua luce mi rende tranquillo, mi fa addormentare e mi risveglia dolcemente, perchè mi accompagna nei sogni, perchè non mi urla mai di svegliarmi, perchè mi parla in silenzio ed ascolta cosa le dico, perchè mi sorride sempre, perchè non è mai cattiva, perchè…” bruscamente si fermò. Fissò la sua grotta e la luce della luna e poi sottovoce concluse: “…perchè mi rende felice”.
La ragazza si strinse nelle spalle, ma dolcemente, senza aria di rimprovero:
“Ecco, te lo sei detto da solo come è possibile”.
Ysahc restò in silenzio. Alzò gli occhi in cielo e guardò il sole che scontroso rifiutò il suo sguardo e lo costrinse a chiudereli e voltarsi dall’altra parte in un battibaleno. Si sedette per terra e pensò. Pensò a cosa aveva fatto a come, egoisticamente, aveva tolto al mondo la sua voglia di vivere, di sorridere e di gioire. Si sentì colpevole, si sentì triste e si sentì amareggiato ma un pensiero non gli lasciava la mente. Lui amava la luna. Non poteva restituirla, non poteva privarsene adesso, lasciarla uscire e tornare in cielo. Non avrebbe potuto sopportare la vista della sua casa vuota, senza di lei, senza il suo sguardo e senza il suo abbraccio. Ci pensò su un pò, poi si mise in piedi. Guardò la ragazza con gli occhi bassi e le chiese di andarsene:
“Torna a casa. Hai vinto tu. Vi ridarò la luna. Vi ridarò la gioia e l’amore. Vi ridarò il silenzio e la pace. Vi ridarò le stelle ed il buio. Ma io la amo ancora. La luna deve restare mia. Deve restare con me o io ne morirò. Non posso ridarvela per sempre. Non più. Non a questo punto. Per questo motivo quando sarete sazi del suo sguardo, quando sarete pieni della sua luce e colmi del suo abbraccio io me la riprenderò. La riporterò con me e la farò di nuovo mia compagna. Mi prenderà di nuovo in braccio, mi cullerà di nuovo nella sua luce e mi farà addormentare nel suo splendore. Resterà con me fin quando non mi
sazierà e poi, visto che per il mondo è così importante, tornerà di nuovo in cielo e rimetterà a posto le cose. Fermerà di nuovo il tempo, scaccierà il sole e riparerà i suoi danni. Tornerà alla fine del giorno. Alla fine di ogni giorno. Per rimettere le cose a posto. Almeno fino alla prossima notte. Ora vai. Goditi la tua notte”. Così dicendo tornò dentro la grotta ma non richiuse la porta. La bianca luce che traspariva dall’interno cessò d’improvviso, lasciando la roccia in balia
dell’oscurità. Un attimo dopo, però, tornò più forte di prima, più accecante di prima e la luna balzò fuori correndo verso il cielo, dritta verso il sole. Il nuovo arrivato la vide avvicinare e senza dire una parola si voltò dall’altra parte ed andò giù. Il cielo cambiò di nuovo colore, si colorò di arancione, poi di rosso e divenne quasi infuocato. Il sole scomparve dietro la montagna e la luna tornò in cielo richiamando a sè tutte le stelle che arrivarono di gran carriera chissà da dove. La luce si disperse, sommersa dal buio e dal nero che le si avvinghiarono addosso e il chiarore di luna si specchiò nel mare. Tutto il mondo smise di urlare. Alzò gli occhi in cielo, e la vide. La ri-vide. Tutti l’avevano dimenticata ma bastò un attimo per ricordarsene. Guardarono le stelle e le comete, ascoltarono il silenzio ed ammirarono il volo delle lucciole. Videro il nero e la luna, insieme, di nuovo e ricordarono com’erano. Ricordarono cosa erano prima e si accorsero di cosa erano diventati. Posarono i bastoni, lasciarono cadere le pietre e si chiesero scusa. Si strinsero la mano, cercando di farsi perdonare e perdonando allo stesso tempo, poi si sedettero per terra e guardarono il cielo. Rimasero in silenzio, smisero di urlare e smisero di correre. Smisero di odiare e smisero di combattere. La luna tornò al suo posto e restituì a tutti la voglia di sognare. La ragazza scese dalla montagna, si avviò verso il bosco e si assicurò che nessuno fosse lì a guardarla. Si nascose dietro un albero e si chinò sull’erba facendosi piccola piccola. Il suo corpo si illuminò e la sua forma mutò in un attimo. Diventò minuscola, un minuscolo puntino luminoso, e volò verso il cielo, verso le stelle, le sue sorelle. Le raggiunse lassù in cima e fu accolta con gioia da ognuna di loro. Ritrovò il loro abbraccio e poi anche quello della luna che la riconobbe subito e le sorrise:
“Accipicchia, ti sono proprio mancata, eh?”.
“Non ti possono portare via”, rispose lei, “non possono portare via nessuno di noi. Il mondo ha bisogno di te, ha bisogno di noi. Ha bisogno dell’amore e della gioia. Ha bisogno del silenzio, ha bisogno di dormire. Ha bisogno della luna. Ha bisogno delle stelle. Ha bisogno della notte. Nessuno ci guarda mai abbastanza, nessuno capisce quanto siamo importanti. Ma finchè noi ci saremo, finchè nessuno dovrà mai fare i conti con un mondo senza riposo, senza silenzio, senza la notte, le cose saranno come devono essere. Perchè gli uomini possono anche essere sciocchi ed ignorarci. Possono anche tentare di rapirci e di cancellarci. Ma noi siamo eterne ed in un modo o nell’altro torniamo sempre. Gli diamo riposo, li facciamo sognare anche se non lo meritano. Gli diamo la pace anche se non la chiedono. E li miglioriamo. Li coccoliamo. Da sempre. Chissà se un giorno si accorgeranno di quanto bene gli facciamo. Chissà se un giorno ci ringazieranno. O se, chissà, smetteranno di ignorarci. In ogni caso noi restermo qui, ancora, ad aspettare. Anche tutta la notte”.

Da quel giorno ad ogni sole fa seguito una luna ed ad ogni luna fa seguito un sole. Da qualche parte Ysahc richiama a se la sua amata alla fine di ogni notte e rimette il sole al suo posto restituendoci un mondo fatto di rumore e di disprezzo. Poi, però, per fortuna mantiene fede alla sua promessa, torna fuori e ci restituisce la pace, ci restituisce la luna che aggiusta, ripara e ci fa addormentare. La speranza, mia e mi auguro anche vostra, è che continui a tener fede al patto fino alla fine dei tempi, che continui a darci la notte, che fermi il giorno e che resti fedele. Ma se qualche volta la notte non dovesse tornare, se qualche volta il giorno dovesse durare troppo ed il buio tardasse ad arrivare, non lasciamolo vincere. Non permettiamogli di portarcela via. Scaliamo la montagna, bussiamo alla sua porta e riprendiamocela. Oppure chiediamo aiuto alle stelle. Chiediamogli di venire giù, per riportarla sù. Difendiamo la nostra notte. Non abbiamo idea di quanto sia importante. Non abbiamo idea di cosa significherebbe perderla.

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PS: Non sono bravo a scrivere storie, mi scuserete se non vi è piaciuta e probabilmente è così. E non sono bravo nemmeno ad inventare i nomi ma per questo non dovete scusarmi voi. Per questo chiedo scusa ad un’altra persona, anzi non ad una persona. Mi serviva un personaggio egoista, che non pensasse agli altri e pensasse solo a se stesso. Mi serviva un personaggio quasi cattivo. Quasi malvagio. E così ho pensato al mio draghetto di peluches. No, non è malvagio. E’ per questo che devo chiedergli scusa. Mi serviva un personaggio quasi cattivo, e lui è esattamente il contrario. E allora ho preso lui, al contrario. Per questo chiedo scusa a Chasy per avere usato il suo nome in questa storia. Spero che lui mi perdonerà, ma sono sicuro che lo farà. Per lui la luna non è mai andata via.

Gli occhi delle stelle

Posted in Storie e poesie on 7 novembre 2010 by campa100anni

Questa e’ la storia di una piccola stella. Una piccola stella che un giorno decise di lasciare la sua galassia per esplorare un po’ l’universo di cui aveva tanto sentito parlare ma che non aveva mai visto. Era sempre stata benissimo in mezzo ai suoi soli, alle sue lune ed alle sue amiche stelle ma adesso voleva proprio vedere cosa c’era fuori dalla sua galassia, aldila’ dei suoi pianeti, oltre le mura della sua casa. Preparo’ uno zainetto con un po’ d’acqua, vi infilo’ qualche barretta di cioccolato, saluto’ le sue amiche stelle, diede l’arrivederci ai suoi pianeti, ai suoi soli, alle sue lune e parti’ in direzione del nero profondo. Non appena si allontano’ da casa avverti’ subito una strana senzazione: non si era mai allontanata tanto e si senti’ un po’ in balia dell’ignoto ma continuo’ ad andare stringendosi nelle spalle. Avanzava a piccoli passi, un po’ perche’ era piccolina, un po’ per timore di quello che poteva trovare. Aveva tanto sentito parlare dell’universo e, sebbene avesse sentito se era meraviglioso, enorme, splendente e stracolmo di meraviglie aveva anche sentito che era pericoloso, colmo di buchi neri e di meteore vaganti che andavano a spasso su e giu’ per miliardi di anni. Di tanto in tanto si voltava per guardare quanta strada aveva fatto e rimaneva sempre un po’ sorpresa nel vedere che la sua galassia sembrava sempre essere alla stessa distanza. Di strada ne aveva fatta, ne era sicura, ma la sua casa poteva vederla ancora, distinguendola chiaramente in mezzo alle sue amiche stelle, alle sue lune, i suoi soli ed i suoi pianeti. Ogni volta comunque si stringeva nelle spalle, si rivoltava verso il nero universo e riprendeva a camminare. Quando aveva sete sorseggiava dalla sua bottiglia. Quando aveva fame mangiava un boccone dalla sua barretta. Quando era stanca si sedeva un po’. L’universo era davvero enorme, non c’era che dire. Era esattamente come glielo avevano raccontato. Sembrava infinito. Non si vedeva la fine, anzi a pensarci bene non si vedeva nemmeno l’inizio e lei non aveva proprio mai visto un cartello “inizio dell’universo” o “fine dell’universo”. Forse c’erano. O forse no. Di sicuro  lei non li aveva visti. Una cosa pero’ l’aveva colpita tanto. L’universo era enorme, era immenso, era maestoso ma era anche vuoto. Era tanto vuoto che per piu’ di una volta la piccola stella ebbe la sensazione di essere l’unico essere vivente dello spazio. Le avevano raccontato di pianeti, eruzioni solari, anelli di saturno, costellazioni, ed invece niente di niente. Avanzava nel buio, nel vuoto e nel silenzio piu’ assoluto, come se qualcuno fosse arrivato di notte ed avesse messo in un sacco tutto quello che c’era e poi se lo fosse portato via. Cerco’ di battere le mani un paio di volte per vedere se qualcuno, incuriosito dal rumore, veniva fuori, di tanto in tanto tossiva un po’ sia per darsi un po’ di coraggio sia sperando che qualcuno si facesse vivo per vedere chi nel bel mezzo dello spazio aveva bisogno di bere qualcosa di caldo.  Si sentiva dentro un tunnel, un tunnel senza uscita che la stava lasciando entrare ma che, forse, ad un certo punto avrebbe anche potuto decidere di non lasciarla uscire. Quel pensiero la fece rabbrividire e rigirandosi alle sue spalle si accorse che questa volta la sua casa appariva, questa volta si’, molto piu’ lontana. Di strada ne aveva fatta tanta, ne era sicura, e questa volta ne aveva la conferma. Vedendo la sua galassia piccola piccola come non l’aveva vista mai si fermo’, pensando che forse era davvero il momento di tornare indietro anche perche’, in fin dei conti, questo tanto decantato “universo” non era mica poi questo granche’. Un ammasso di nero senza inizio e fine, tanto, tantissimo spazio vuoto dove aveva sempre creduto potessero e dovessero esserci pianeti, stelle, soli, lune, costellazioni, galassie e tante altre meraviglie che, a questo punto, pensava fossero solo fantasie o storie che le avevano raccontato chissa’ perche’ e chissa’ per come.  Si convinse che non c’era motivo di proseguire e fece per tornare indietro. Per darsi ancora un po’ di tempo sorseggio’ un altro paio di volte dalla sua bottiglietta e si sedette qualche minuto nel bel mezzo del nero. Quando si stanco’ di aspettare si mise in piedi, sbuffo’ un po’ delusa dal risultato della sua spedizione, si giro’ di spalle e fece per incamminarsi verso casa. Non appena si rimise lo zainetto in spalla, pero’, vide in lontananza un pianeta che non aveva visto prima. Forse non aveva aguzzato la vista abbastanza, forse si era distratta un attimo, fatto sta che non l’aveva visto proprio ed adesso invece stava li’, fiero, grande e possente. Era un gran bel pianeta. Tutto rosso e tutto tondo, che se ne stava fermo a fissare in alto senza curarsi del fatto di essere tutto solo al centro del nulla. Ogni tanto si grattava la testa o il naso e poi tornava a fissare li in alto senza dire una parola o senza muoversi di un centimetro per cercare di trovare compagnia. “Un pianeta decisamente solitario”, penso’ la piccola stella che avrebbe tanto voluto avvicinarsi, parlargli, fargli delle domande ma era troppo timida. Insomma, quello era un pianeta vero. Un pianeta fuori dalla sua galassia, uno dei pianeti di cui le avevano sempre parlato… Anche se forse, pero’, era l’unico. Era l’unico pianeta dello spazio forse? E perche’ se ne stava li da solo da chissa’ quanto tempo? Perche’ non andava a cercarsi compagnia? La sua galassia non era poi cosi lontana, avrebbe potuto raggiungerla comodamente quando voleva e almeno non se ne sarebbe stato li’ tutto solo e tutto triste. Era troppo curiosa di conoscerlo ed allora, alla fine, fece un respiro profondo, si fece coraggio e si avvicino’. Il grande pianeta non sembro’ neanche accorgersi della sua presenza e questo fece un po’ rattristire la piccola stella che durante i suoi passettini che la dividevano dal nuovo incontrato aveva le gambe tremanti in preda all’emozione.
“Ciao!”, disse con il cuoricino che le faceva tum tum.
Il grande pianeta volse il suo sguardo in direzione della piccola stella ma non la guardo’, come se pensasse che la voce arrivasse da dietro di lei, di piu’ anzi, come se non la vedesse proprio. Con i suoi occhi scrutava alle sue spalle, sopra la sua testa, ma proprio non incontrava il suo sguardo. La piccola stella si guardo’ indietro, poi alla sua destra e poi alla sua sinistra ma, nonostante gli occhi del pianeta scrutassero chissa’ dove, c’era solo e soltanto lei. Si strinse nelle spalle, sbuffo’ un po’ e ci riprovo’:
“Ehi, sono qui!”.
Il grande pianeta fece una piccola smorfia di disappunto, un po’ seccato di non sapere chi gli stava rivolgendo la parola, e continuo’ a voltarsi di qui e di li come se stesse dando la caccia ad una fastidiosa mosca. Finalmente, dopo decine di tentativi falliti,  la scorse in mezzo al buoi pesto di quell’univero:
“Toh! Ciao! E tu chi sei?”.
“Sono una piccola stella”, rispose lei finalmente libera di mostrare tutta la sua eccitazione. Incrociando leggermente i piedi per l’imbarazzo continuo’:
“E tu chi sei?”.
“Oh, io sono solo un piccolo pianeta. Niente di piu’, niente di meno.”.
“Piccolo? Beh, forse non sei un sole ma non mi sembri proprio tanto piccolo”, ribatte’ lei accennando un mezzo sorriso che per il forte imbarazzo assunse tanto la forma di una strana smorfia sulla sua piccola bocca.
“Beh, che non sono un sole non ci sono dubbi direi”, rispose lui ricambiando con un ben piu’ sicuro sorriso, “pero’ ammetterai che tanto grande non sono”.
La piccola stella, rassicurata dal tono amichevole del grosso pianeta incalzo’:
“Beh, sei sicuramente piu’ grande di tutti i pianeti che ci sono nella mia galassia”.
“Davvero?”, chiese lui, “E da quale galassia vieni tu?”.
La piccola stella volto’ le sue spalle ed indico’ col dito l’ammasso di luci che si scorgeva in fondo al nero, come la fiamma di una candela accesa in una stanza buia, sentendosi un po’ emozionata trovandosi per la prima volta nella sua vita a mostrare la sua casa a qualcuno che non l’aveva mia vista prima.
“Eccola li. Lo so, non e’ molto grande ma ti assicuro che e’ molto, molto bella.”.
Il grande pianeta sorrise di nuovo:
“Beh, non ho dubbi che sia molto bella ma di certo non me ne accorgerei da qui. Dovrei almeno vederla prima di poterlo dire.”.
La piccola stella si rizzo’ in punta di piedi come una bimba capricciosa che gioca a fare l’offesa:
“Daiii! Quella laggiu’!”.
“Quale? Quella viola con tre soli? O quella verde con nove pianeti? O quella gialla avvolta dalle nubi?”.
La piccola stella si volto’ di nuovo, poi riguardo’ il grande pianeta:
“Viola? Tre soli? Verde? Nubi? Ma se e’ li’!”.
Il grande pianeta scruto’ l’orizzonte come se dovesse vedere oltre un milione di stelle e il suo imbarazzo nel non trovare la sua casa le parse assolutamente autentico.
“Ma davvero non la vedi?”, chiese quasi a volerlo togliere da quella scomoda posizione.
“Oh andiamo, come potrei vedere la tua galassia e riconoscerla in mezzo a tutto l’universo?”.
“Tutto l’universo? Ma se c’e’ solo lei! C’e’ solo la mia galassia nell’universo e tu sei il solo che ci vive fuori! Anzi, perche’ non vieni con me invece di startene qui tutto solo?”.
“Tutto solo? Ma ti sei guardata intorno?”.
“Certo che si! Ci sei solo tu qui!”.
Il grande pianeta la guardo’ fisso poi ribatte’:
“Ma sei nel bel mezzo dell’universo! Come potrei essere da solo? Insomma guardati intorno! Guarda quante stelle, quanti pianeti, quanti soli, meteore, asteroidi!”.
La piccola stella si guardo’ intorno e la sola cosa che vide fu l’immensita’ del suo universo vuoto, triste e deserto. Ma il grande pianeta era serio, continuava ad indicare, ad elencare, a descrivere. La piccola stella si convinse che il solo ed unico abitante dell’universo era in realta’ un matto da legare.
“Troppo tempo da solo, e’ uscito fuori di testa” penso’ e decise di assecondarlo perche’, in fin dei conti, anche se un po’ matto, era simpatico e parlargli le piaceva.
“Ma certo che li vedo”, riprese allora, “Ti prendevo in giro! Come potrei non vederli proprio qui al centro dell’universo?”.
Il grosso pianeta si mostro’ sollevato e gentilmente sorrise ancora:
“Accidenti a te stella! Ho quasi creduto che fossi matta!”.
La piccola stella sorrise e mantenne vivo l’argomento:
“E ti piace questo universo?”.
“Oh, e’ meraviglioso. Assolutamente meraviglioso. Sono pieno di amici qui. Tutti intorno a me. Ci divertiamo tanto, ci raccontiamo tanto, e poi… E poi c’e’ lei… La cosa piu’ bella che abbia mai visto, proprio lassu’.”.
Il grande pianeta alzo’ lo sguardo ed indico’ con il dito sopra di lui.
“La luna?”, chiese la piccola stella.
“La luna.”, annui’ il grande pianeta, “e’ meravigliosa. Non ho mai visto niente di cosi bello, dolce e tenero. La amo follemente. Non le ho mai parlato, credo che lei non mi abbia neanche mai visto, ma io spero ogni giorno. Spero che un giorno riesca a rivolgerle la parola ed a dirle quanto l’amo”.
La piccola stella, che non era mai stata innamorata, sorrise e si trattenne ancora un po’ con il suo nuovo amico. Quando si fece troppo tardi decise che era ora di tornare a casa. Saluto’ il grande pianeta, si rimise lo zainetto in spalla ed a piccoli passettini torno’ verso la sua galassia un po’ sollevata di lasciare tutto quel nero, quel silenzio e quella solitudine. Il grande pianeta era tutto matto, non c’era altro da pensare. Insomma, se ne stava li tutto solo a fissare la luna e vedeva stelle, pianeti, asteroidi dappertutto. “Altroche’ pieno di amici” penso’, “qui non c’e’ proprio nessuno”. Ma nonostante tutto era gentile, molto gentile ed era anche simpatico. Cosi’ prima di andare via gli promise che sarebbe tornata a trovarlo spesso in modo che lui potesse raccontargli ancora del suo universo e dei suoi amici. E cosi fece. Ogni giorno la piccola stella lasciava la sua galassia per inoltrarsi nell’oscuro e solitario universo alla volta del grande e solitario pianeta. Lui si diceva sempre sorpreso dalla facilita’ con la quale lei lo riusciva sempre a ritrovare tra i miliardi di pianeti vicini; lei sorrideva, “ormai conosco la strada” ma naturalmente era come trovare una lampadina accesa in una stanza buia. Si trattava solo di raggiungerla e toccarla. Passavano giorni interi a parlare ed a raccontarsi delle rispettive galassie, con il grande pianeta che di tanto in tanto indicava qualcosa nel buio pesto dell’universo e la piccola stella che fingeva di vederci ora un pianeta, ora una cometa ed ora un’astronave. Ma dopo qualche tempo alla piccola stella successe qualcosa. Si rese conto che ogni giorno andava a trovare il grande pianeta non soltanto per sentire storie su un mondo che non c’era. Si rese conto che andava dal grande pianeta perche’ gli piaceva sentirlo parlare. Di piu’. Gli piaceva “vederlo” parlare. Gradiva il suono della sua voce, le piaceva vederlo muoversi, vederlo sorridere e che era sempre piu’ difficile salutarlo quando era ora di tornare a casa. Se ne accorse a poco a poco. Giorno dopo giorno. Si accorse che si era innamorata di lui. Era una sensazione strana per lei, tutta nuova, ma le piaceva. Le piaceva come si sentiva quando dal buio cominciava a vederlo venir fuori e senza accorgersene affrettava sempre il passo quando stava ormai per raggiungerlo. Le piaceva quando lui le sorrideva e le piaceva anche quando tornando a casa sapeva che il giorno dopo lo avrebbe rivisto. Si era innamorata del grande pianeta. Non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, non riusciva a smettere di parlargli, di fargli domande per prolungare il piu’ possibile il tempo da passare insieme. Continuava ancora a tornare a casa quando era tardi e ripartire la mattina dopo per rivederlo, ma giorno dopo giorno lo lasciava sempre piu’ tardi per ritrovarlo sempre piu’ presto. Fu tutto un crescere. Senza preavviso e senza spiegazione. Lei non lo capiva ma le piaceva e tanto bastava. Finche’ una notte successe una cosa. Una cosa che non avrebbe mai creduto prima. Si era trattenuta tutto il giorno a parlare con lui, persa nei suoi occhi, ipnotizzata dalle sue parole ed incantata dalla sua bocca nella quale avrebbe voluto perdersi per sempre. Parlarono tantissimo, sorrisero tantissimo ed arrivo’ il momento di salutarsi ancora una volta. La piccola stella era seduta su un ammasso di nuvole che solo il grande pianete vedeva ma che, in realta’, non esisteva e posando un ultimo sguardo sul suo amato si mise in piedi. Un ultimo sguardo sorridente prima di riprendere la via di casa ma appena volto’ le spalle le si paro’ davanti agli occhi una visione che la costrinse a fare un balzo indietro per la sorpresa. Non credeva a quello che vedeva, doveva essere un sogno non c’erano dubbi. Si strofino’ gli occhi, si diede un pizzicotto, conto’ fino a dieci ma la visione non spariva. Era ancora li, davanti a lei. Un’immensa distesa di stelle le si parava davanti, quasi ad accecarla tale era il bagliore che liberavano. Un’infinita’ di pianeti colorava l’universo come la frutta candita colora una fetta di torta. Ed ancora galassie, soli, lune, meteore, comete, un milione, un miliardo, un trilione di triliardi di forme, di colori, di costellazioni adesso riempiva quel nero cupo ed eterno che fino a qualche secondo prima era stato l’unico universo che lei avesse mai conosciuto. Non riusciva a pensare, non riusciva a capire cosa stesse succedendo, sapeva solo quello che vedeva ed era una cosa meravigliosa. Si fece mille domande, ma a nessuna di queste sappe rispondersi. Poi pero’ si volto’ verso il suo pianeta. Si volto’ verso il suo pianeta e capi. Si rivolto’ ancora verso il nuovo universo, e con gli occhi lucidi di lacrime sorrise. Non aveva mai visto niente di cosi meraviglioso ed adesso sapeva perche’. Non gli aveva creduto. Al suo amato. Non gli aveva creduto. L’aveva creduto folle ed invece adesso sapeva che l’universo, quello vero, era quello. Che era enorme, che era infinito, e che era meraviglioso. Quella notte la piccola stella non torno’ a casa. Non ci torno’ mai piu’. Resto’ per sempre accanto al suo pianeta, in mezzo all’universo, confondendosi tra i miliardi di stelle che popolano lo spazio. Ancora adesso se alzate gli occhi in cielo potete vederli. Vicini, uno all’altra. A contemplare i loro rispettivi amori. La luna lui, il pianeta lei. Potete vederli che si raccontano, sorridenti, le loro storie. Agguzzate la vista e li vedrete di certo. Ma se anche non doveste vederli, se scrutando il cielo non dovestre trovarli abbiate pazienza. Non fate come la piccola stella. Non datemi del folle. Aspettate, attendete. Forse non e’ ancora il momento. Forse non e’ ancora il “vostro” momento. Attendete ancora un po’, cercate meglio, guardate bene. Ma, statene certi, quando meno ve lo aspettate li vedrete venire fuori. Li vedrete venire fuori insieme a miliardi e miliardi di altre meraviglie. Di pianeti, di galassie e di costellazioni. Di luci, di scintille e di polveri lucenti. Di meteore, di vulcani e di montagne. Ed allora mi crederete. Capirete che non sono folle. Vedrete quello che non avevate visto.
Forse non li vedete ma fidatevi, ci sono.

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Questa storia e’ un inno all’amore. Perche’ quando ci innamoriamo vediamo tutto con altri occhi. Sentiamo cose che non sentivamo. Vediamo cose che non vedevamo. Troviamo nuove forze e nuove motivazioni.
Accendiamo la luce. Vediamo oltre il buio.

Dovremmo essere sempre innamorati.

L’uomo, il drago e la luna

Posted in Storie e poesie on 10 novembre 2009 by campa100anni
Non attesi neanche la luce del giorno. Andai di notte. Con la luna alta nel cielo a sorvegliare i miei passi, ad indicarmi la strada. Ad illuminarmi il cammino che, ne ero certo, sarebbe stato lungo e tortuoso. Sarebbe stato difficile, sarebbe stato stremante, sarebbe stato triste. La forza non sempre avrebbe sostenuto il mio corpo. Presto la stanchezza avrebbe reclamato il mio scalpo. Probabilmente non avrei avuto la forza per oppormi ma ormai non era più tempo di attendere. Era giunta l’ora di osare. Di essere impavidi. Avevo deciso che non avrei più atteso. Avrei sfidato il destino e sarei andato incontro al mio. Morendo forse, Sì, morendo, anzi certamente. Ma attendere ancora sarebbe stato peggio. Sarebbe stato come morire lentamente, schiacciato giorno dopo giorno dal peso della colpa. Della vergogna. E della disperazione. La colpa, perchè non fui in grado di trarla in salvo. La vergogna, perchè per tutto il tempo a venire mi vergognai di essere stato così codardo. E la disperazione, per averla persa per sempre. Uccisa, davanti i miei occhi di ghiaccio. Uccisa, dal mostro a cui adesso do la caccia. Ed io paralizzato. Davanti ad un orrore così straziante. Incapace di difenderla. Incapace di salvarla. Ma capace di piangere. Di piangere accanto alle sue spoglie. Di piangere sotto le stelle. Di piangere sotto la luna. La stessa luna che adesso, con disprezzo, mi guarda dall’alto. Mi punta a dito, mi rimprovera, mi ammonisce che ormai è troppo tardi. Mi parla, mi dissuade, cerca di aprirmi gli occhi urlandomi che non ho possibilità. Che sto andando incontro a morte certa e che devo tornare indietro, prima che sia troppo tardi.  Chiama le nubi a raccolta, mi oscura il sentiero, infanga i miei passi. Si aggrappa alla mia schiena, mi offre conforto, mi promette comprensione. Mi mostra passione. Ma non mi ferma. Non riesce a frenare il mio cammino ed alla fine cede. Torna su in cielo e affianca le stelle. Caccia via le nubi perchè io non mi fermo ed allora decide di vedermi andare fino in fondo. Quasi da spettatrice. Decide di assistere al mio fallimento. Il secondo. Sempre da lassù. Inerme. Immobile. Disinteressata. Vada al diavolo anche lei. Vadano al diavolo tutti questa notte. Sì, vadano al diavolo ed aspettino il mio arrivo. Perchè stanotte ci andrò anch’io. Al diavolo. Dritto all’inferno. E’ lì che finirò quando la mia folle sete di vendetta avrà compiuto il suo dovere. Quando anch’io perirò. Ed il diavolo non sarà clemente. Non mi concederà il dono del tempo. Non mi lascierà riflettere sulle mie azioni. Non mi darà l’opportunità di pentirmi. Mi punirà, mi tormenterà e mi ucciderà. Ancora. Ed ancora. Ed ancora. Ma la notte è ancora lunga. La strada è ancora tanta. Ed il ricordo ancora nitido. Troppo. Vento. Vento negli occhi. Mi costringe a socchiuderli, a girare il volto ed offrirgli la mia guancia. In quell’attimo di distrazione la rivedo, per un attimo. Infinito. La rivedo accanto a me. Bellissima. Felice. Innamorata. Come lo ero io. Oh sì, tanto innamorato. Anche troppo. Quasi accecato dall’amore. Non avrei mai pensato che avrebbe potuto accaderci qualcosa di male. Di tanto male. Fui impreparato… Fui colto di sorpresa… Fui impreparato… Mentre la notte dorme i miei passi risuonano alle mie orecchie come una marcia. Volgo in alto il mio sguardo, guardo la luna e la riconosco. Eccola lì. Il suo ghigno mi sfida, i suoi occhi mi scrutano. E’ lei. E’ la sua complice. Se adesso sono solo, se adesso sono disperato, se adesso vado incontro alla morte è anche colpa sua. E’ soprattutto colpa sua. Un’altra folata di vento. Ancora i miei occhi chiusi. Ancora la mia guancia schiaffeggiata. Ed ancora il ricordo. Ancora lei. Raggiante. Fantastica. Bellissima. Anche le stelle la ammirano. E’ una notte fantastica. E’ tutto perfetto. La luna che diventerà mia nemica è, adesso, mia alleata e mi guarda assopita. Ci guarda assopita. Si è fatta bella. Ancora più bella. Perchè noi la guardiamo. Perchè possiamo ammirarla. Perchè possiamo contemplarla e perchè possiamo, sotto il suo sguardo, amarci. Quando cessa il vento e riapro gli occhi lei è scomparsa. Di nuovo. E così il ricordo. Sbiadito. Lontano. Vago. Oh no, non voglio che svanisca. Non voglio dimenticarla. Non posso. Non devo. Non voglio ucciderla ancora. Di nuovo. Non voglio assistere inerme, ancora, mentre me la portano via. Non mentre mi portano via la mia amata. Non di nuovo. Non di nuovo. Non di nuovo. Perdonami mia amata. Perdonami. Non glielo permetterò. Non ti farò uccidere di nuovo. Te lo giuro. Ed allora corro. Corro perchè non sono un codardo, non più. Questa volta vincerò io e la trarrò in salvo. E non ci sarà bestia che mi fermerà sia esso anche il diavolo in persona. Mi hai sentito diavolo? Non mi fermerai nemmeno tu. Non mi fermerà nessuno questa notte. I miei passi attraversano i bui sentieri del bosco ed ormai non mi curo più del pericolo. Se il destino è contro di me che faccia in fretta a venirmi a prendere, altrimenti dovrà cercarsi un’altra vittima. Dovrà cercarsi un’altra preda perchè io questa notte vincerò. Volgo in alto lo sguardo, questa volta sono io a sfidarla. Sono io a sfidare la luna ed ad urlargli di stare a guardare. Le urlo che stavolta sarò impavido, sarò coraggioso e sarò forte e che questa volta non l’avranno vinta. Non l’avranno vinta loro. Questa notte mi riprendo la mia amata. La luna accetta la sfida, regge il mio sguardo, non perde terreno e continua a ghignare. Mi scruta, mi giudica, dubita di me. Mi guarda sorridendo e non c’e’ niente di amichevole in quel sorriso. Avrò un avversario in più questa notte ma, ormai, non fa più differenza. Sono pronto e voglio combattere. Voglio combattere e non voglio più aspettare. Voglio riprendermi il mio orgoglio. Voglio riprendermi la mia amata. Guardo ancora la luna per urlarle di nuovo la mia forza ma stavolta lei non ricambia il mio sguardo. I suoi occhi sono fissi oltre di me e guardano compiaciuti qualcosa. Ci siamo. E’ arrivato il momento. Mi fermo ed il mio ansimare risuona assordante nella notte. Lui mi ha sentito. Mi volto e lo vedo. Il suo fuoco illumina i miei occhi, il suo ruggito buca le mie orecchie. Mi stava aspettando. Accucciato per terra si compiace con la luna, meritevole di avermi portato da lui. Balza in piedi e corre verso di me. Mi sono ripromesso di essere coraggioso, di essere impavido, di essere forte ed invece sono paralizzato. Di nuovo, sono terrorizzato e realizzo che è la fine. Venire sin qui è stata una pazzia ed il mio disperato tentativo di vendetta è in realtà un progetto di suicidio. Perdonami mia amata, sono un codardo e non sono degno di te. Non sono stato in grado di difenderti allora, non sono in grado di riprenderti adesso. Finirà come era ovvio sarebbe finita. Perderò. Perirò. E non sarò mai più in pace. Il mostro mi colpisce con un colpo secco ed io vengo scaraventato via. Il dolore è lacerante e ricopre ogni parte del mio corpo ma è solo un assaggio. La mia schiena finisce contro le rocce e la mia testa colpisce la dura, millenaria, pietra illuminata dalla mia gialla nemica. Quella che mi guarda, che ghigna e che lancia un cenno di intesa al suo complice. Il dolore è fortissimo ed i miei occhi cedono, si chiudono. E di nuovo accade. Ritorna lei. Mi sorride, mi abbraccia, mi stringe forte e mi dice che mi ama. Anch’io la amo e non esito a baciarla. La luna, così bella e splendente, reclama la nostra attenzione ed allora alziamo lo sguardo per non negarle la giusta ammirazione. Alziamo lo sguardo per contemplarla ed ammirarla. Ed è allora che lo vedo. Di sfuggita, con la coda dell’occhio. Lo vedo muoversi nell’ombra, silenzioso come il vento, furtivo come un serpente ma chiaro come il giorno. Lo vedo andare verso di lei, venire alla luce, spiccare il balzo. Adesso ricordo tutto. Ricordo il suo splendido viso che fissa la luna. Ed un attimo dopo i suoi occhi colmi di lacrime. Ricordo la luna splendente. Ed un attimo dopo ghignante. Ma soprattutto ricordo la mia paura. Il mio terrore che mi impedì di difenderla, di trarla in salvo, di gettarmi in una lotta che mi avrebbe visto certamente perire maalmeno battermi per la mia amata. Una lotta che non ci avrebbe salvati, ma che almeno non ci avrebbe divisi. Una lotta che, adesso, vorrei aver intrapreso. Vorrei essere stato forte. E coraggioso. E valoroso. E vorrei aver lottato. Vorrei averlo potuto battere. Vorrei aver potuto vendicarmi. E all’improvviso mi ricordo che adesso posso. Posso essere coraggioso. E valoroso. E posso lottare. E posso batterlo. Ed adesso posso vendicarmi. Quando riapro gli occhi sono io ad essere inferocito. Ad essere una bestia. Ad essere un mostro. Urlando mi scaravento contro quell’essere infernale e riesco a gettarlo per terra. Mi lancio sul suo corpo e cerco di trafiggerlo ma la sua forza è incredibile; riesce a districarsi dalla mia presa, mi colpisce con tale violenza da farmi crollare al suolo e si accinge a darmi il colpo letale. La luna ghignante fa da cornice alla sua deforme zampa che un attimo dopo cala su di me cercando di tagliarmi di netto la testa. Questa volta, però, il terrore non mi ferma ed anzi mi da la forza di lottare e di non arrendermi. Mi da la forza di reagire e di combattere. Mi da la forza di rialzarmi. Riesco a schivare il suo colpo e resto quasi sorpreso dalla facilità con la quale riesco a rimettermi in piedi ed a colpirlo alle spalle. Il suo corpo non oppone resistenza e si allontana da me roteando. Nei suoi occhi scorgo il terrore, scorgo il dolore e scorgo la sorpresa. La sorpresa… Una sensazione che mi è decisamente familiare. Quando, un attimo dopo, il suo copro viene ricoperto dalle sue stesse fiamme mi volto a fissare la luna che fino all’ultimo istante ha sperato che cedessi e che adesso, quasi imbarazzata, cerca di evitare il mio sguardo e le lancio il mio ghigno soddisfatto. Le urla di dolore del mostro rimbombano nelle mie orecchie e vedendolo bruciare nel suo falò riesco quasi a sorridere. Quando le fiamme raggiungono la sua tenda e fanno fuggire il suo cavallo, di quell’essere demoniaco è rimasto quasi niente. Una spada semi bruciata, dei bizzarri panni che portava indosso ed una sorta di pasto vicino al fuoco. La mia coda porta i segni della battaglia, le mie zampe sembrano crollare sotto il peso della fatica ma io riesco lo stesso a sorridere. Chiudo gli occhi e bacio, per l’ultima volta, la mia amata uccisa da un ammazzadraghi che ha avuto, purtroppo troppo tardi, quello che si meritava. Con gli occhi colmi di lacrime apro le mie ali e spicco il volo. Sono stremato e voglio tornare alla mia caverna. Ma lo voglio fare nuotando nel cielo. Lo voglio fare sotto la luna. Lo voglio fare fissandola negli occhi ed urlandogli, ghignando, che questa volta sono stato coraggioso. Che questa volta sono stato impavido. Che questa volta sono stato valoroso. E che questa volta ho vinto io. Io, il drago.

*= Questa storia è un tributo a “Chasing The Dragon” splendida canzone degli Epica ed è dedicata a Chasy, il mio draghetto di peluches.

Piccola storia in occasione di San Valentino

Posted in Storie e poesie on 14 febbraio 2008 by campa100anni
 
Anche se comunque con San Valentino non c’entra niente.
 
E’ la notte di Natale a Vienna. Fuori da una chiesa, seduto sulle scale, avvolto di stracci ed in preda ad un freddo gelido e cumuli di neve che gi cadono dolcemente addosso sta seduto un piccolo bimbo di 7 anni cieco, povero e tutto solo. Non ha niente al mondo, ma sorride perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. Non ha genitori, parenti, amici, nessuno che lo accudisca, è tutto solo, mangia molto di rado, quando lo fa scarta tra sacchi di spazzatura ed avanzi di cibo in strada destinato a cani e gatti solo le poche cose che riesce ad afferrare e tenere nelle sue piccole mani. Fuori dalla chiesa ascolta il rumore della gente passare, immagina come sia il mondo che lui non ha mai visto, che vorrebbe tanto vedere, ma comunque sorride perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. La sua unica compagna è una piccola fisarmonica malandata che suona ogni notte fino a quando non ha più la forza ed allora si accascia in un angolino delle scale e dorme sperando in cuor suo che il giorno dopo sia un giorno migliore, ma consapevole del fatto che invece non cambierà niente. Prima di addormentarsi ogni notte riesce comunque a fare un sorriso perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. Suonare la fisarmonica lo aiuta a far passare il tempo che sembra non passare mai quando il freddo gelido dell’inverno ti avvolge la faccia ed hai solo stracci che coprono il tuo corpo, lo aiuta a comunicare col mondo esterno quando i passanti non lo degnano nemmeno di uno sguardo e lui anche se non ci vede, lo sente, e ne soffre, ma comunque sorride perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. Ed eccolo lì, quindi, suonare la sua fisarmonica mentre dentro la grande chiesa si celebra la Santa Messa di Natale alla quale assistono tutti i ricchi signori, le ricche signore, nobili, principi e baroni. Il fiato gli viene meno e dalla fisarmonica non esce che un leggero fischio sovrastato da quello del vento, assai più forte ed assai più prepotente. Ed arriva la mezzanotte, la messa finisce*, ed i ricchi signori cominciano a venir fuori con le loro pellicce, i loro cappotti, i loro cappelli, i loro guanti, le loro sciarpe. Passano tutti senza degnare di un singolo sguardo il piccolo bimbo che sempre più infreddolito continua a soffiare senpre più piano nella sua piccola fisarmonica, ma che nonostante tutto sorride perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. Un ricco signore si accorge di lui. Sott’occhio lo vede, e si ferma. Lo osserva da lontano e lentamente si avvicina. Lo fissa negli occhi e capisce che il bimbo è cieco. Lo fissa per qualche secondo e capisce anche che il bambino non si è accorto della sua presenza. Sorride compiaciuto, e con il suo bastone di legno lavorato da un colpo alla fisarmonica del piccolo che vola via dalle sue piccole e fredde mani. Il bambino resta per un secondo come sorpreso, poi a carponi scende giù dalle scale e cerca con le sue piccole dita nude in mezzo alla neve per ritrovare la sua compagna. Il ricco signore si avvicina alla fisarmonica, la sposta con un calcio ed al suo posto mette una lametta da barba. Il piccolo continua a cercare in mezzo alla neve, il freddo gli ha ormai gelato le falangi, non ha più sensibilità nelle dita ma sorride perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. Alla fine trova qualcosa, la impugna ed a carponi lentamente tirando su col naso risale le scale della chiesa. Si accovaccia cercando di tirare ancora più a se i pochi stracci che gli coprono il corpo, mette in bocca la lametta da barba, riprende a suonare e sorride perchè in fondo la vita gli ha dato tanto. E mentre suona il suo sorriso si allarga sempre di più… Sempre di più…
 
*= Lo so che la messa di Natale non finisce mai a mezzanotte ma sticazzi.
 
PS: Questa storia non l’ho inventata io, l’ho presa (anche se un pò rivista e corretta) dal Dylan Dog "L’uomo che visse due volte". Ve lo dico accussì si b’affezzionastivu a stu picciriddu ci iti a rumpiri a cachiara a Tiziano Sclavi e un ba pigghiati cu mia.
 
Buon San Valentino.
Ciè…

La creatura

Posted in Storie e poesie on 4 Maggio 2007 by campa100anni
Oggi tocca a me. Lo so. Ne sono certo. Oggi è il mio turno di affrontare la creatura. Ho ancora negli occhi l’ultima sua apparizione. Ho ancora negli occhi quella povera vittima che cercava disperatamente di divoncolarsi dalla sua presa, prima di essere stritolata impietosamente. Il campo di battaglia è ormai pronto. Dovrò cercare con tutte le forze di trovare appiglio, o potrei venire distrutto anch’io. Non c’e’ scampo per me e lo so già, ma non posso mollare prima di combattere. Devo farmi forza. Devo essere uomo. In attesa di vederla comparire procedo a capo chino pensando a come avrei potuto evitare quel fatidico duello, a come avrei potuto fare in modo che quello per me fosse un giorno come tanti altri. Davanti a me i miei occhi vedono solo il vuoto, incuranti di quello che gli si para davvero davanti. Anche loro sono rassegnati alla fine. Si rifiutano di scrutare l’orizzonte perchè tanto è solo questione di tempo, la creatura apparirà, il destino farà il suo corso. L’attesa è snervante. Preferirei battermi adesso, incoscientemente ed andare incontro alla fine gridando, urlando che ho paura, ma che non mi tiro indietro. Il grande guerriero non è quello che non cade mai, ma quello che cadendo trova poi la forza di rialzarsi, quello che sconfitto, trova le motivazioni per tornare. E’ come se camminassi nel deserto. Niente di quello che succede intorno a me mi riguarda, niente riesce a catturare la mia attenzione, niente mi allevia la lacerante sensazione di sconforto, consapevolezza di inferiorità, consapevolezza che questa volta è davvero finita. Nulla di nuovo all’orizzonte si presenta davanti ai miei occhi. Il pallore della luna rischiara la terra, che sembra fango, che sembra chiamarmi a se, anticipando la fine che sarà da lì a poco. Sono quasi tentato di rifugiarmici, per non incontrarla. Il coraggio è la virtù dei forti, ma in questi momenti, è difficile esserlo, forti. Mi chino in ginocchio e raccolgo un pugno di terriccio. Lo strofino nelle mani. Lo annuso. La creatura è passata di qui. Ha visto ciò che sto vedendo io. Ha respirato ciò che sto respirando io. Questo mi raggela il sangue nelle vene. Mi ribadisce ancora che è tutto reale. Nessun sogno. Nessun incubo. Io sono davvero lì, e sto davvero per affrontarla. Un’improvviso scatto del collo verso sinistra. Un fruscio da quella parte. Forse il vento, forse no… Mi avvicino lentamente. So già cosa troverò dietro quel cespuglio, ma devo ugualmente andare. E’ ora di farla finita. Con passo lento e terrorizzato mi avvicino alla siepe. I miei occhi inespressivi sono lo specchio di quello che provo adesso. Questo darà maggiore forza alla creatura. Vedrà il mio terrore, capirà che non so oppormi ed avrà vita facile. Importa poco ormai. E’ tempo di combattere. Apro uno squarcio nella siepe e dietro vedo… nulla. Non c’e’ nulla dietro la siepe. Che sia davvero stato il vento? Il vento gelido della notte? E’ il vento che mi ha fermato il cuore? E’ il vento che mi soffia dietro? E’ il vento che ha reso gelato il sangue che scorre nelle mie vene? No, non è il vento. E io so cos’e’. So cosa è stato a farmi quasi impazzire di terrore per un’istante. E’ stata la stessa cosa che adesso mi tiene paralizzato. Che mi impedisce di voltarmi. Conosco fin troppo bene quel rumore. Sono le sue zampe. Sono le sue orrende, orribili zampe che si conficcano nel terreno ad ogni passo sottomettendo ogni singolo granello di polvere al suo potere. Eccola lì. Dietro di me. La creatura è in piedi e mi osserva. I suoi occhi che paiono di cristallo mi fissano mentre il suo ansimante respiro scandisce i secondi. Mi indica col dito, quasi ad indentificarmi per non permettermi di fuggire. Un ultimo sguardo minaccioso prima di darmi le spalle ed allontanarsi di qualche metro. In un attimo di irrazionalità mi guardo intorno alla ricerca di una via di fuga che in realtà non esiste e per la prima volta i miei occhi vedono. Vanno oltre e scorgono quello che la paura mi impediva di vedere. Vedo che non sono solo. Decine di figure intorno a me seguono con area distratta le mie sorti, come una sorta di pubblico poco interessato. Alcuni bisbigliano qualcosa tra di loro, altri mi puntano a dito, altri seguono in silenzio e in stato di parziale allerta i miei movimenti, così come quelli della creatura. Nei loro occhi scorgo sensazioni diverse mille mondi. Fierezza, rispetto, sconforto, indifferenza, arroganza, complicità, paura. Paura. Ecco un sentimento familiare. Paura. Ma non è uguale. E’ una paura diversa. E’ una paura dovuta. Di circostanza. E’ più paura della situazione che paura del rischio. Ed a pensarci bene so cos’e’. La creatura non attacca mai due vittime. Dopo un combattimento non ha sufficenti forze per affrontarne un’ altra, quindi si limita a saziare la sua fame con una sola preda. Quella preda oggi sono io. Sono io colui destinato a morire oggi. E’ la mia ora. Sono una salvezza per gli altri. Sono il loro salvatore. Loro oggi godranno di un’altra giornata tranquilla perchè qui, a lottare per la vita di fronte alla mostruosa creatura ci sono io. E questo mi porta agli occhi un’altra verità. Non ho scampo. Nessuno di loro mi aiuterà. Anche se dovessi trovare una via di fuga, nessuno di loro mi permetterà di sottrarmi al mio destino. Hanno bisogno di me. Del mio sacrificio per non morire. Hanno bisogno che io affronti la creatura perchè loro vivano. Ed il momento è arrivato. Il momento che avevo anche aspettato è giunto. Sì, finalmente è l’ora. Meglio andare subito incontro al proprio destino che meditare sul perchè e il percome. E’ il momento di lottare. E’ il momento di battersi. E’ il momento. Le grottesche fauci si contraggono in un qualcosa che sembra una smorfia di dolore, poi si aprono lasciando intravedere miliardi di denti aguzzi che grondano sangue e bava. Subito portato dal vento mi giunge il puzzo di cadaveri in putrefazione che fanno ormai capanna nello stomaco della creatura da centinaia di secoli. Un suono esce da quell’orribile bocca ed esplode in cielo ed in terra. E’ il mio nome. Urlato dalla creatura che ha definitivamente comunicato il nome della sua vittima. Il sospiro di sollievo delle figure intorno a me mette a nudo la crudeltà del momento. Scorgo negli occhi di alcuni di loro sollievo, risollevazione, persino appagamento e soddisfazione. Io vorrei urlare. E fuggire. Oh sì… Quanto vorrei fuggire via. Quanto vorrei che qualcosa mi traesse in salvo da lì, mi portasse al sicuro via da lì. In qualunque luogo, ma via da lì. Chiudo gli occhi ed invoco l’aiuto del fato. Chiedo che per una volta il fato sia mio complice e sia dalla mia parte. E forse questa volta il fato mi ascolta. In lontananza mi pare di odere un suono distante. Gli occhi colmi di lacrime si sbarrano e fissano in quella direzione. Il cuore sobbalza nel petto, in attesa di una conferma di ciò che ha creduto di sentire. Quel suono, lontano e distante continua. Ma adesso è un pò più chiaro. Prendo lentamente coscienza che forse è tutto reale, non lo sto soltanto immaginando. La mia sola ancora di salvezza si sta facendo avanti, offrendomi il solo appiglio in cui potevo sperare. Il suono è sempre più chiaro e vicino ed ormai è certo. E’ reale. Non sto sognando. E’ davvero come sembra. Sono salvo. Inizio a riconoscerlo. E’ lui. E’ quello che ho sempre sentito ad una certa ora. E’ lei. E’ quella che volevo. E’ la campana. L’ora è finita. Tutto è andato bene, per stavolta. Tutto è andato bene ed improvvisamente vedo tutto per ciò che è davvero. Adesso so dove sono. So cosa ci faccio lì. So chi sono e cosa devo fare. La professoressa con aria stizzita mi dice: "va beh, ti è andata bene. Ti interrogo la settimana prossima" ed esce dall’aula. Le figure intorno a me mi si avvicinano e sorridendo dicono "inkia ru culu" prima di dileguarsi nei corridoi. Rimango da solo. Guardo la lampada al neon che sembrava tanto una luna, e lo zaino che sembrava tanto una siepe. Sorrido, scuoto le spalle e penso: "vabbè, la settimana prossima mà iaccu.".
 
PS: Concedetemi ogni tanto un pò di nostalgia…

I quaderni magici

Posted in Storie e poesie on 2 marzo 2007 by campa100anni
 
Quando scarabocchiamo un foglio, scriviamo una storia, disegnamo un cerchio non prestiamo attenzione. Se agguzzassimo un pò la vista, vedremmo che appena un secondo dopo avere completato il disegno di un omino, lui comincerà a muoversi; vedremmo che non appena finito un triangolo, esso inizierà a dondolare; ci accorgeremmo che una volta realizzato un pesce egli nuoterà via non appena alziamo lo sguardo per tornare immediatamente al suo posto quando ci posiamo nuovamente gli occhi. Esistono dei quaderni magici. Dei quaderni all’interno della quale, una volta chiusi, tutto ciò che è stato scritto prende vita. Non è facile trovarli. Ancor meno sapere quanti sono. Ma ci sono, statene certi, e la storia che sta per iniziare arriva proprio da uno di questi…
 
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Questa storia si svolge all’interno di un quaderno di matematica. All’interno di un quaderno pieno di numeri, moltiplicazioni, divisioni, sistemi a due, tre e quattro incognite, seni e coseni, limiti ed integrali. In mezzo a cerchi, semicerchi, rette e parabole. Decine di rette. Centinaia, migliaia di rette che scorrazzano liberamente tra le pagine bianche, in mezzo ad equazioni che si scansano trafelate prima di essere travolte, in mezzo a circonferenze che tentano sempre di stringersi per tenerle imprigionate, accanto a sistemi ed espressioni che le salutano alzando una parentesi al loro passaggio. La vita scorre tranquilla per quelle rette, alcune tra le più semplici figure geometriche esistenti. Una di loro però era triste. Una di loro scorrazzava in quel quaderno da Settembre ormai… Non era altro che uno scarabocchio venuto fuori durante un’ ora di supplenza, uno dei tanti che ci sono in mille altri quaderni. Ma come detto questo qui è un quaderno magico, e da sette mesi ormai quella retta viaggiava a velocità supersonica tra piccoli quadratini grigi che sembravano volerla catturare ad ogni istante. Il fatto che non ci fossero ancora riusciti, ne era sicura la povera retta, non voleva dire che non ci sarebbero MAI riusciti. Era solo questione di tempo. Desiderava poco la povera retta. Le sarebbe bastata un pò di compagnia. Qualcuno con cui parlare. Con cui scambiare quattro chiacchere ogni tanto, tra un foglio e l’altro. Aveva sentito parlare di rette parallele, le più fortunate a suo dire, che potevano trascorrere tutta la vita insieme. Ogni tanto qualche piccolo incidente di percorso le rendeva incidenti o ancora peggio perpendicolari ma sempre meglio che passare tutta la vita da soli… Sognava spesso di essere un asso cartesiano ed essere attraversata di centinaia di rette, qualche volta sognava addirittura di essere un punto per essere attraversata da infinite rette. Ma era peggio. Più il sogno era bello, più il risveglio le appariva triste, buio e drammatico. Si era quasi decisa a gettarsi fuori dal foglio e farla finita una volta per tutte, quando, un giorno, al suo fianco avvetì una presenza. Probabilmente si trattava del solito frustrato limite tendente a zero che cercava sempre di strappare un passaggio per potere tendere istantaneamente ad infinito, meglio non prestargli attenzione.
"Ciao!", disse la presenza.
"Non mi scocciare, non sono dell’umore adatto.", rispose la retta.
"Ehi che accoglienza… Se questo è il buongiorno mi sa che iniziamo male." .
"Ma quale buongiorno!". repilichò seccata la retta che non si era ancora girata a guardare la sua nuova compagna, "va via…".
"Beh, anche volendo francamente non credo che ci riuscirei", rispose la voce.
La retta iniziava a scocciarsi e si voltò per scacciare definitivamente quella fastidiosa presenza.
"Oh, insomma che sciocchezze! Vuoi deciderti ad and…aaaaa….". Non le fu possibile pronunciare altro. La bocca si era paralizzata perchè quello che aveva rischiato di cacciare via per sempre non era un limite. Non era un fastidiosissimo limite. Era una retta proprio come lei. E non solo. Era una retta parallela. E non solo. Era bella… Era la più bella retta che avesse mai visto… Assolutamente la più bella retta che avesse mai visto. Se ne innamorò all’istante. Si scusò per averla trattata male e subito cercò di protrarsi il più vicino possibile, ma per le rette, purtroppo, è impossibile anche solo deviare il loro percorso di qualche millimetro. La cosa sembrò non importare alla povera retta che tentò, tentò e ritentò, ma alla fine dovette arrendersi perchè proprio non ci riusciva. Allora iniziò a parlare, come aveva voluto fare da sempre. Raccontò alla splendida retta della sua vita, cosa le piaceva e cosa non le piaceva, le raccontò delle cose che aveva visto in tutti quei mesi, e di come era contenta che lei fosse lì, in quel momento. La splendida retta si mostrò interessata al racconto, e allora la povera retta continuò raccontandole di quando era appena nata e della paura che aveva avuto quando aveva schivato di un pelo una enorme parentesi graffa, e poi di quando aveva incontrato il numero più lungo del mondo e per quanto lei andasse veloce, lui cresceva sempre di più tanto che era impossibile vederne l’estremità, e poi di quando si trovò in trappola tra due insiemi che giocavano li per caso e di tanto altro ancora finchè non si accorse che…
La splendida retta, che lo guardava con due splendidi occhi azzurri, stava avvicinandosi sempre di più. La retta non credette ai propri occhi. Misurò la distanza tra i due, era ancora parecchia, ma era leggermente inferiore a prima. Avrebbe voluto urlare di gioia. Ce l’aveva fatta forse. Era riuscita a deviare il percorso. L’amore aveva vinto sulla logica. Era stata condannata per sette mesi in preda alla solitudine, alla tristezza ed alla disperazione, adesso era arrivata la ricompensa. Si trovava li, accanto alla cosa più bella che avesse mai visto, e tra un pò avrebbe potuto abbracciarla. Tutto ciò era fantastico. Risuonò la meravigliosa voce della sua splendida vicina di corsa…
"Ti vedo felice…".
"Siiiiii… Sono riuscito a deviare… Mi sto avvicinando!!! Sto venendo da te!!! Che bello, che bello, che bello!!!".
"Ti sbagli, non ti stai avvicinando tu, mi sto avvicinando io…".
"Oh, mia amata! Allora anche tu mi ami! Ti stai avvicinando! Sei riuscita a deviare il tuo percorso ed adesso stai venendo da me!! Oh che bello, che bello!!!".
"Vuoi stare zitto un attimo? Non mi ha nemmeno dato il tempo di presentarmi.".
"Oh, ma non c’e’ bisogno! Io ti amo e tu stai venendo da me! Ancora poco e potrò abbracciarti!!!".
"Mi chiamo Isabella…"
"Isabella! Che bel nome! Fantastico nome!!!".
"… e sono il tuo asintoto, coglione.".
"…".
E alla povera retta c’arristaru i cugghiuna chini i spacchiu.
 
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Ecco perchè odio gli asintoti. Illudono le povere rette.

Il poeta che c’e’ in me

Posted in Storie e poesie on 1 marzo 2007 by campa100anni
 
Dopo la famosa "Ode Alla Portiera", libero un’altra volta il poeta che c’e’ in me per la delizia di tutti voi che leggete…
 
Se tu fossi…
 
Se tu fossi una fragola,
allora io amerei le fragole.
Se tu fossi una foglia,
allora io amerei le foglie.
Se tu fossi un alito di vento,
allora io amerei le giornate invernali.
Se tu fossi una goccia di pioggia,
allora io danzerei nella tempesta.
Se tu fossi un raggio di sole,
allora io amerei il tuo calore.
Se tu fossi il chiarore della luna,
allora io vivrei solo di notte.
Se tu fossi l’innocenza di un bambino,
allora io non crescerei mai.
Se tu fossi l’immensità dell’oceano,
allora io invidierei l’orizzonte che ti abbraccia.
Se tu fossi la vita,
allora io non morirei mai.
Se tu fossi la morte,
allora io ti aspetterei.
Se tu fossi catanese…

…agliààà…
Passa iddà…
 
Senza rancore.
Anzi un poco si.

Ode alla portiera

Posted in Storie e poesie on 31 Maggio 2006 by campa100anni
Ogni giorno a pranzo, io, Angelo e Giampaolo ci avviamo verso il supermarket che si trova vicino l’ufficio. Durante il tragitto passiamo accanto ad un
palazzo che a differenza di tutti gli altri non ha un portiere, ma unA portierA… Avete presente le portiere di 35/40 anni dei film porno? Ecco,
praticamente una cosa del genere… E’ mia intenzione lodarne le te………. le te…………. le tenere espressioni, il cu……….. il cu………. il
curioso modo di vestire, e la fi……….. la fi……….. la figa.
Ho articolato il mio pensiero in rima e sono lieto di offrirvi la seguente opera:
 
Oh Venere che rallegri il pranzo nostro
tu forse non hai ancora realizzato
che ogni nostro sguardo a te è rivolto
anche se camminiamo col gelato
 
A te che del palazzo sei regina
io dedico questa ode melodiosa
che poi se oso pensarti a pecorina
m’immagino una cosa favolosa…
 
Stai li a braccia conserte in attesa
magari di qualcuno che ti manca
qualcuno che magari non ti ha presa
o forse che ti metta in gravidanza.
 
Giampaolo ha ipotizzato che tu forse
con falsa indifferenza in realtà ammiri
sti tre pezzi di maschi che ogni giorno
ti mandano la testa su di giri…
 
Pensandoci un istante forse è vero
potrebbe anche essere il motivo
per cui ogni giorno proprio al nostro arrivo
il tuo bel culo prende e si fa vivo.
 
Sei una visione bella e prepotente
il nero della pelle poi ti dona
l’abbronzatura rende più attraente
ma nel tuo caso ti fa ancor più bona.
 
Dispiace contraddire i Tinturia
"pi ogni riccio caccia nu capricciu"
Lelluccio sentimi un minutu a mia
t’u’ giuru ca sta riccia è un pezz’ì sticchiu.
 
Forse Angelo dirà "ma è sposata…"
ah beh, allora cambia tutto quanto…
Inveci ri ficcalla tutta a irnata
nnà jamu a fari sulamenti a pranzo.
 
Da sola riesci a reggere il confronto
con quell’altro figaio a noi vicino
quella "palestra", sì col menu pronto…
Secondo me l’Extension è un pompino…
 
Avranno alcuni codici segreti
ragazzi, dico vero non per finta
l’ho visto coi miei occhi, ve lo giuro
là una entra normale e nesci incinta…
 
Massaggi, pedicure e messa in piega
sì, quella roba lì per gente ricca…
E’ inutile a me non me ne frega
rimango dell’idea ca ddà si ficca…
 
Ma stiamo divagando e ormai è già sera
dai su rientriamo in tema presto presto
questa mia ode è per la portiera
su dai, chiudiamo in modo disonesto…
 
Oh tu portiera che ti fai guardare
ma tu cosa faresti nei miei panni?
Nella tua portineria io vorrei entrare
un bel colpo di "Oh, Yeah!" e calati i mutanni…
 
Chiudiamo con l’invito più carino
anche se forse è solo "da strapazzo"
dai vieni, su portiera, qui vicino
dai vieni qui a sederti sul mio…
 
 
Salvo Alighieri.
Poesia scritta in volgare.
Ciè…
 
PS: Arriva Giugno, arriva l’Estate, e il blog torna in versione estiva…
Buona Estate to everybody!!!